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Le confessioni di Massimo Ghini: “Io, maltrattato dalla sinistra. Mai entrato nei circoletti...”

Le confessioni di Massimo Ghini: “Io, maltrattato dalla sinistra. Mai entrato nei circoletti...”

Milano, 11 novembre 2025 – “Salite sugli autobus!”. Lo ripeteva Zavattini ai cineasti. Per non perdere il contatto con la gente. Con il mondo.

Lezione che Massimo Ghini ha mandato a memoria: grandi ruoli ma con in tasca l’abbonamento ai mezzi pubblici. Sarà per questo che la gente lo ama. E la critica tentenna. A teatro però spacca i botteghini con ‘Il vedovo’, da stasera al Manzoni di Milano. Regia dello stesso Ghini. Affiancato fra gli altri da Galatea Ranzi. Una commedia. Dal classico di Dino Risi (con Sordi e Franca Valeri). Dove si racconta del commendatore Nardi che vive sulle spalle della moglie Elvira, geniale affarista milanese. Non finirà benissimo. O forse sì? Certo si ride. Parecchio. Puro black humor.

Ghini, com’è allora il suo Alberto Nardi?

“È un uomo che insieme ad altri tre idioti cerca di far fuori la moglie. Se vogliamo è il racconto di un protofemminicidio, anche se dobbiamo calarci nella realtà del 1959. Per il resto è il protagonista di una delle primissime commedie all’italiana, quei capolavori che ti facevano ridere con battute straordinarie per 90 minuti, prima di un finale che ti gettava nella commozione, nel melodramma”.

Come si regge il confronto con Sordi?

“Con apprensione. L’avevo già interpretato in una pubblicità per il Caffè Illy del 1999, uno spot diretto da Francis Ford Coppola. Era un omaggio allo Sceicco Bianco, avevo anche il costume originale. Giravamo ad Ostia con una troupe che sembrava stessimo facendo Ben Hur. Alberto passò a salutare e mi disse: “Tu lo puoi fa’!’. E per me è stato come se mi dessero un David di Donatello”.

Che però non le hanno dato.

“Ma va! La prima nomination l’ho avuta qualche anno fa per ‘A casa tutti bene’ di Gabriele Muccino, dopo aver lavorato in 120 film. Forse dovrei ritirarmi e scrivere anch’io un libro, se solo me lo lasciassero intitolare: ‘Potevo mancare?’”.

Torniamo al Vedovo.

“L’abbiamo ricostruito sulle mie corde, senza cadere nel tranello della maschera, dell’imitazione. Ho però tenuto due citazioni: “Marchese che fa, spinge?“ e “Dov’è la mia Elvira?“. Era inevitabile. Mia moglie poi mi chiama tutto il tempo “cretinetti“, un colpo di genio di Franca Valeri. Alla fine è uno spaccato della società italiana dell’epoca, non si salva nessuno. È l’alta borghesia del boom, con le fabbrichette. Quelli che si trasformeranno poi nei Mostri di Dino Risi, mica i banditi pasoliniani. Mi spiace solo vedere come il cinema abbia perso incisività nel raccontare queste vicende”.

Cosa intende?

“È un settore che vive un lungo processo autodistruttivo: s’insegue l’autorialità senza avere oggi i grandi autori. E questo sempre a scapito delle nostre commedie e del loro potenziale. Ma noi non siamo il cinema iraniano. E le sale nel frattempo si svuotano”.

Forse è anche un problema di scritture?

“Sicuramente. Non si trovano tutti i giorni Benvenuti e De Bernardi, Age & Scarpelli, Lizzani, Zavattini. Lui ripeteva sempre ‘Salite sugli autobus, guardate le persone’”.

Lei ci è salito spesso.

“Ho iniziato a teatro qui a Milano con Strehler, ho lavorato con i registi internazionali e nei cinepattoni. Perché avrei dovuto fare diversamente? Mi chiamarono per la tv mentre ero in scena con la Maria Stuarda di Franco Zeffirelli. Ho interpretato pure Enrico Mattei che fondava il Giorno. Il regalo più grande è l’amore delle persone. Ma per il resto non sono stato trattato molto bene, nemmeno dalla mia parte politica, visto che sono un uomo di sinistra e tutti sanno come la penso”.

Perché l’hanno trattata male?

“Come presidente del Sindacato Attori Cgil ho rotto i coglioni. E poi è un mondo che guarda con schifo totale alla commedia. Quando ho fatto il mio primo film di Natale è stato come se avessi bestemmiato in chiesa, sull’altare. Inoltre io non ho il fisico inquieto ed emaciato di chi fa la ricerca, esco da anni di pallanuoto, sembro un bagnino. Sarei stato perfetto per Palombella Rossa, Nanni Moretti mi disse pure di sì”.

Ma le parole non erano poi così importanti...

“Sono ancora qui che lo aspetto”.

Ha avuto meno di quello che si meritava?

“Qualcuno inizia a pensarlo. Io però sono orgoglioso di riempire cinema e teatri, di avere il coraggio di salire sul palco e andare in tournée, non sai quanti se ne guardano bene. Non faccio parte del circoletto ma i ragazzi mi fermano per strada”.

Qualcosa che oggi farebbe diversamente?

“Collaborai con Virzì per “La bella vita“, il suo esordio, scritto benissimo. Ma poi rifiutai “Ferie d’agosto“, bofonchiando qualcosa sul fatto che non volessi fare un film corale. Scelta che credo possa rientrare in quel “momento del coglione“ che ogni tanto prende un po’ tutti. Mi spiace anche di non essermi trasferito in Spagna, Paese dove continuo a lavorare con molta qualità”.

Che anni erano?

“Primi ’80. Pensa che facevo un film con Banderas ma ero io il protagonista, non chiedermi perché. Ricordo una sera che eravamo in giro insieme su una Vespa, correvamo verso il Bernabeu per vedere Real–Barcellona. Volevo trasferirmi, stavo benissimo, qui in Italia eravamo già sempre in crisi. Ma poi mi chiamò Pál Gábor per un film con Ángela Molina e Stefania Sandrelli”.

Argomenti forti.

“Molto. Insieme alla pasta fresca di mamma”.

Nei prossimi mesi?

““Noi Giuda“, bellissimo monologo di Angelo Longoni. E poi cinema, tanto cinema. Fra cui il nuovo film di Pupi Avati”.

Il Giorno

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